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Smart Working: che cos’è? Pregi e difetti del lavoro agile

Lavorare fuori ufficio, potendo gestire in autonomia luogo e orari, è un sogno di molti. Ma funziona davvero? Ecco chi sta adottando lo smart working in Italia e con quali risultati.

Lavorare comodamente da casa o da qualsiasi altra postazione, senza la preoccupazione di dover andare in ufficio. Per molti, sembra qualcosa simile a un sogno.

Lo smart working, o lavoro agile, mai come negli ultimi anni ha la possibilità di diventare reale. Si sta diffondendo fra le imprese, anche nel Bel Paese.

Secondo l’ultima ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, lo praticava, nel 2015, il 17% delle grandi imprese.

La tecnologia oggi rende possibile comunicare e collaborare a distanza, facendo affidamento soltanto su un computer, una connessione Internet e strumenti come Skype, Slack, o Trello.

Aziende e dipendenti iniziano ad approfittarne, con tempi e modalità diverse. A differenza del telelavoro, chi usufruisce dello smart working non è di solito vincolato al tipico orario di ufficio, ma può organizzarsi come vuole.

Deve però rientrare periodicamente in azienda, dato che, come recita anche il disegno di legge del governo in materia, il lavoro si svolge “in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno”.

Smart working in ufficio

L’intento, quindi, non è quello di rimpiazzare del tutto la classica scrivania in sede, ma di alleggerire la presenza in loco, dando modo ai lavoratori di conciliare meglio vita personale e professionale.

Lo smart working permette anche alle aziende di risparmiare sui costi fissi. Ad esempio, avere meno persone in ufficio significa per le imprese potersi permettere sedi più piccole, con minori spese di affitto e utenze.

Il dipendente, a sua volta, non viene più valutato in base alla presenza, ovvero all’orario timbrato sul cartellino, ma in termini di obiettivi raggiunti.

Le multinazionali: i leader del lavoro agile

Le multinazionali sono state le prime ad abbracciare questa piccola rivoluzione copernicana. Fra i casi noti in Italia c’è, ad esempio, quello di Barilla.

Il colosso dell’alimentare ha iniziato già nel 2013 a proporre forme di lavoro agile ai dipendenti. Oggi ne usufruisce ben il 74% della forza lavoro. Ed è solo l’inizio: entro il 2020, a Parma puntano ad offrire a tutti gli impiegati la possibilità di lavorare da casa per alcuni giorni al mese.

Altri battistrada sono stati anche gruppi come Siemens, Vodafone (la cui politica di lavoro flessibile coinvolge 3.100 lavoratori in Italia), Nestlé e molte altre imprese — per lo più del settore tecnologico.

Nel settore consulenziale spicca il caso di Accenture. La multinazionale americana ha iniziato a introdurre forme di lavoro agile in Italia già dal 2009. Oggi ne usufruisce ben l’83% della forza lavoro delle sedi di Milano, Torino, Roma e Napoli, che può lavorare fuori sede fino a due giorni alla settimana.

Per il personale di Accenture, lo smart working ha validità. Secondo due diverse indagini, il 90% degli impiegati ha trovato un miglioramento di work-life balance e il 96% descrive un ambiente di lavoro più tranquillo.

Possibili pericoli

Il lavoro flessibile rende tutti felici, dunque? Non proprio. Lo smart working ha anche dei lati oscuri, che vanno dall’isolamento, con connesso rischio di alienazione, al mancato pagamento degli straordinari, a inconvenienti più sottili.

Lavoro agile

Una ricerca effettuata sulle pratiche di lavoro a distanza nel Comune di Torino, ha messo in luce due possibili controindicazioni:

  • l’effetto Stachanov, l’iper lavoro dovuto alla paura di essere visti come poco produttivi dai colleghi e dai dirigenti;
  • l’effetto Mulino Bianco, riguardante in particolare le dipendenti donna, che stando a casa hanno finito col sobbarcarsi anche una maggiore quantità di compiti domestici.

Perché lo smart working funzioni, insomma, occorre un cambiamento non tanto tecnologico quanto culturale, affinché la libertà non si trasformi in un ulteriore peso.