Contratto a progetto: novità e dinamiche
Con il Jobs Act e i decreti collegati, è scomparso dal nostro ordinamento il contratto a progetto. Continua però a esistere, in alcuni casi, la collaborazione coordinata continuativa.Addio al contratto a progetto (co.co.pro). Dal giugno 2015, con il Jobs Act del governo Renzi che ha introdotto diverse novità, non è più possibile stipulare contratti di questo tipo.
Restano in vigore fino alla scadenza i contratti a progetto già esistenti. Per i lavoratori della Pubblica Amministrazione, invece, l’eliminazione di questa forma giuridica è posticipata al 2017.
Il contratto a progetto nasce nel 2003 all’interno della cosiddetta Legge Biagi, e indica un lavoro firmato per il raggiungimento di un obiettivo specifico concordato con il datore di lavoro.
Tutele per i lavoratori
Con la creazione del contratto a progetto venivano introdotte alcune tutele per i lavoratori rispetto alle forme contrattuali esistenti prima, come ad esempio la Collaborazione Coordinata e Continuativa (co.co.co).
Il contratto così veniva sospeso, e non estinto, in caso di malattia o infortunio del collaboratore.
Lo stesso avveniva in caso di gravidanza, con prolungamento minimo di 180 giorni della durata contrattuale, e con l’assicurazione anti-infortunio a carico del datore di lavoro.
Inoltre nel 2012, con la riforma Fornero, veniva stabilita una sorta di “salario minimo” per i co.co.pro., legato allo stipendio di base deciso dai sindacati.
In realtà, il contratto a progetto è spesso servito da paravento: le garanzie erano limitate e non sempre applicate, e i collaboratori, molto spesso, svolgevano le stesse mansioni dei dipendenti senza condividerne garanzie e tutele.
Ora, con la cancellazione del contratto a progetto, si dovrebbe aprire la strada a un inquadramento più stabile, da dipendente vero e proprio.
Problema risolto, dunque? Non proprio!
Come si legge nel testo del Decreto n.81 del 2015, la trasformazione automatica in lavoro dipendente si applica soltanto ai rapporti di collaborazione esclusivamente personali (resa senza avvalersi dell’apporto e/o di mezzi altrui), continuativi e i cui tempi, luoghi e modalità sono stabiliti dal datore di lavoro.
Non ricadono quindi in questa categoria quelle attività in cui il collaboratore provvede a organizzarsi da solo per quanto riguarda tempi e sede di svolgimento, come ad esempio per lavori da freelance.
Il decreto prevede poi una serie di eccezioni per le collaborazioni:
- regolate da particolari accordi collettivi nazionali sindacali;
- a opera di iscritti in appositi albi professionali (come i commercialisti);
- effettuate dai componenti degli organi di amministrazione e controllo di società;
- in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche.
I co.co.co.
Nel primo caso rientrano, ad esempio, i contratti collettivi per gli operatori di call center outbound e per i docenti di scuole private. Entrambe le categorie potranno continuare a essere inquadrate con contratti di collaborazione coordinata continuativa (co.co.co., regolati dall’art. 409 del codice di procedura civile).
Già. Perché anche se scompare il contratto a progetto, non scompaiono i co.co.co.
Questo sigla indica una tipologia di lavoro autonomo svolto in modo simile a quello di un lavoratore dipendente. Le modalità di attuazione dei co.co.co. vengono determinate, in gran parte, da accordi fra datore di lavoro e dipendenti.
Quindi, nel caso in cui non si potesse stipulare un contratto di lavoro dipendente con le condizioni previste dal Jobs Act, datori di lavoro e dipendenti possono fare ricorso a questa vecchia formula contrattuale. E i co.co.co potrebbero così tornare presto all’ordine del giorno.